Il consumismo, così come l’abbiamo conosciuto, sembra ormai condannato ad una fine lenta ma inesorabile, sostituito, da un lato da una maggiore morigeratezza, dall’altra in evoluzione verso un modello di sharing; sembrerebbe, dunque, che si stia passando dal desiderio di possedere a quello di fruire (anche perché è oggettivamente meno dispendioso condividere che acquistare). Non dimentichiamo quanto, negli anni, il “consumismo” sia stato condannato dai pensatori: generatore di sprechi, di pattume, espressione di un mondo fatto di cose e non di sentimenti, accanto al consumismo anche il termine consumatore, sembra diventare obsoleto e riduttivo; a questo, sempre di più, si preferisce una versione più ampia: persona, cittadino. Storicamente lo sviluppo dei consumi ha generato il consumerismo, non è un caso che la prima associazione italiana di questo genere, l’Unione Nazionale Consumatori sia nata, grazie all’iniziativa di Vincenzo Dona, ufficialmente nel 1955 in pieno miracolo economico. Con l’evolversi dell’approccio all’acquisto e al consumo, il rapporto tra consumerismo e aziende sta cambiando e sempre di più (noi lo auspichiamo) le parti in campo tentano una strada che non è quella dello scontro ma, bensì, della prevenzione, con un sistema collaborativo. Siamo ancora agli inizi e la strada è lunga, permeata da diffidenze e da errori, i “felloni” ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma è una strada “giusta”, in cui le associazioni consumeristiche possono affiancare le persone nelle scelte, fornendo loro strumenti adeguati di decisione, permettendogli di fare scelte informate e apprezzare appieno quanto offerto dal mercato in base alle proprie esigenze di spesa e gusto. E fin qui, tutto bene ma non basta. Nel panorama italiano, si osservano due distonie rispetto al mondo anglosassone: una è l’elevato numero di associazioni presenti, con conseguente polverizzazione delle attività di pressione socio-economica. L’altra è la mancanza dell’arma più importante: la class action o, se preferiamo, l’azione di classe, la cui delibera è ancora in attesa, persa nei meandri della politica. È la solita storia (italiana): si comprende la direzione del cambiamento, ma prevale la tendenza a non voler scontentare nessuno, il risultato è un immobilismo quasi congenito. Inoltre, le associazioni (e non solo quelle consumeristiche) hanno anche, e sempre di più, un altro compito, che non possono svolgere da sole, che è quello di accompagnare questo mondo in evoluzione verso lidi più adeguati alle esigenze di oggi: risparmio energetico, risparmio di materie prime, maggiore valore alla qualità, alla sostenibilità. In questo è necessario che guardino alla formazione, all’educazione del cittadino, ma anche a quella delle imprese, come un compito imprescindibile, diventando così facilitatori di un percorso di crescita nazionale e sovranazionale, che le porti a continuare sì a combattere per i diritti dei loro rappresentati ma che alle battaglie sappia affiancare la costruzione di un nuovo modello di consumo, possibilmente migliore di quello che abbiamo avuto finora.