Al centro di qualunque modello di marketing si voglia adottare deve esserci un tema centrale di cultura dell'innovazione massiccia e coinvolgimento delle persone, collaboratori o clienti che siano, attraverso apprendimento continuo e caring differenziato. Questo lo scenario delineato da Giorgio Soffiato, fondatore e Ad di Marketing Arena, in apertura dell'evento B2B Day 2022 organizzato dall'azienda. Un appuntamento focalizzato sul marketing b2b che diventa tuttavia occasione di dialogo più ampio con spunti d'interesse per tutto il mondo business, considerato che i confini con il b2c sono oggi sempre più labili su spinta di una molteplicità di fattori.
Vediamo dunque, a seguire, una sintesi di lezioni e riflessioni portate dagli esperti intervenuti nel corso del convegno (qui i dati dell'Osservatorio B2B di Marketing Arena e Università Ca' Foscari).
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Must: costruire il brand e vendere in un'unica azione
Questa è l'epoca del brand building che va a braccetto con la value generation. Detto senza inglesismi: della costruzione del brand insieme all'atto di vendita, senza soluzione di continuità tra i due orientamenti. Ad evolvere in questa direzione è stato lo stesso universo Meta, superando l'approccio "performance marketing" (traducendo: "vendi e mostrami i risultati di fatturato"). Il lavoro sulla marca diventa così una costante che deve sottostare a, od accompagnare, anche le azioni orientate alla conversione. A parlarne è Enrico Marchetto di Noiza, citando l'esempio di un post su Instagram del brand VeraLab (nativo digitale con l'influencer Estetista Cinica e poi passato al mondo retail offline) dove la marca a un primo livello di lettura spinge un prodotto (le creme solari), posizionandosi però al contempo sul tema della salute della pelle e dell'attenzione all'esposizione attraverso il contesto. Un advertising, in sintesi, può e forse deve fare sia branding che conversione.
2. Ci sono cose che l'algoritmo fa meglio del marketer: spazio a un lavoro umano qualitativo
"Funziona più una targettizzazione fatta dall’algoritmo che sotto la nostra guida. Per tantissime funzioni l'automazione è più brava di noi, quindi non ha senso passare il 90% del tempo insistendo a sostituirla, ma bisogna fare un diverso lavoro qualitativo", sottolinea sempre Marchetto rivolgendosi ai marketer e a chi decide per loro. Un'ottimizzazione di tempi e risorse che deve spostare il professionista sull’attivazione dell’attenzione, sulla qualità ingaggiante del contenuto, che può e deve, come da puntualizzazione sopra, sposare branding e conversione.
3. La distribuzione del contenuto non può essere punto di partenza e unico scopo
In linea con le osservazioni di Marchetto l'intervento di Olga Baratto, head of content Marketing Arena: "La distribuzione e la diffusione di un contenuto non dovrebbero essere la preoccupazione di partenza, così come la creazione non di prassi demandata ai sempre più popolari strumenti di intelligenza artificiale: va bene avvalersene come supporto, ma devo essere io il reale autore". L’automazione, infatti, non potrà mai sostituire la sensibilità umana, come ben dimostrato dal caso salito agli onori di cronaca dell’algoritmo che ha licenziato il rider per mancata consegna il giorno dopo la sua morte. "Non lasciamoci trascinare in una corsa all’ultima piattaforma e all’ultimo trend. Il compito di un contenuto, come vuole etimologia stessa, è di tenere insieme e contenere, quindi essere pieni, significativi. Il rischio spesso è di creare tanti contenuti ma poco rilevanti e vuoti, che circolano al mero scopo di circolare ma non diffondere un messaggio pregnante".
4. Non giocare in un ruolo, ma scegliere e mantenere una postura. Non focalizzarsi sul chi si vuole raggiungere, ma sul come farlo sentire
La "qualità contro la quantità è un problema antichissimo di chi fa il nostro mestiere. Pensavamo che internet avrebbe cambiato le cose e invece non è stato così", sottolinea Paolo Iabichino, in arte Iabicus, scrittore pubblicitario, direttore creativo e maestro Scuola Holden. "La domanda oggi è non in che ruolo vogliamo giocare ma che postura come marketer vogliamo tenere sul mercato. Vogliamo scrivere progetti di fidelizzazione o fiduciari? Sono due cose molto diverse, si possono fare entrambe con dignità, ma bisogna decidere che tipo di responsabilità si vuole avere. Credo che molti brand sia nel b2b che nel b2c stiamo imparando bene a spostare le persone sui propri canali, dove si prendono lo spazio maggiore di un respiro lungo, di un racconto che va oltre l’approccio funzionale di spinta al consumo. Non si può misurare tutto in click. Vogliamo convertire? Convertiamo, abbiamo tanti efficaci strumenti. Vogliamo fare marca? Dobbiamo fare un discorso diverso. La domanda di apertura dei nostri brief non dovrebbe essere chi vogliamo raggiungere, ma come vogliamo che si senta. E che ci piaccia o meno le parole chiave sono quelle: credibilità, pertinenza e rilevanza. Tutti saranno chiamati a rispondere a questi tre valori e Patagonia non può essere più il solito benchmark di riferimento, dovrebbe essere uno standard. Abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio per insegnare e fare il nostro mestiere, altrimenti cesserà di esistere".
5. Creare connessioni che condividano un universo di significato, aggiungano senza sottrarre
Le connessioni riuscite consistono nella condivisione di universi di significato tra due brand, al fine di trasferire attributi da un ente all’altro, elevando o rinforzando l’immagine di uno od entrambi i soggetti coinvolti. Questa la visione di Alberto Chiapponi di Campari Group, che porta esempi sul tema della stessa azienda. "Bisogna sapere chi è il nostro brand e chi è il potenziale partner, avendo chiarezza rispetto al proprio universo di significato e quello altrui, per poi incrociare la lista di attributi comuni e identificare quelli aspirazionali. Un esempio efficace è quello di GoPro e Redbull, ma la formula si applica a tutto, anche alla scelta degli influencer, che sono sempre più brand-persona. Essenziale in questo senso definire obiettivi condivisi ma anche valutare attentamente il rapporto costo-opportunità, nonché eventuali rischi di cannibalizzazione o perdita di identità: la connessione deve aggiungere e non sottrarre, come è per Campari quella con il Festival del Cinema di Venezia".
6. L'innovazione di secondo livello è l'integrazione (e la fissazione per il "su misura" la ostacola)
Innovare non significa solo focalizzarsi sul prodotto/servizio, il secondo e più elevato livello dell'innovazione, in un sistema complesso come quello attuale, è l'integrazione. "Innovare significa anche pensare a come togliere qualunque tipo di frizione per tutti, non solo per clienti ma anche per gli impiegati: ci sono aziende che prima di farti scaricare il pdf tecnico ti fanno inserire tantissimi dati: a quel punto mi avete già perso", ironizza Paolo Bergamo di OverIT, al dialogo con il professor Gianluca Diegoli (Independent Advisor).
Uno dei (tanti) ostacoli all'integrazione, sul fronte della tecnologia e delle piattaforme, è la tendenza culturale di molte aziende a voler avere tutto fatto su misura, anziché attingere a modelli esistenti dal funzionamento e dell'efficacia già testati anche ad alti livelli: uno spreco spesso di risorse, tempo e che non favorisce la possibilità di integrazione con il resto dell’ecosistema esistente. "Una sorta di pigrizia mentale mascherata da gusto per l’artigianato, ma anche per il voler portare avanti ciò che è idea personale a tutti i costi, quando i creativi veri sono pochi, tutto il resto è tanto processo e tanta buona tecnica".