Esportare idee, prodotti, competenze e tecnologie. Conquistare nuovi mercati con le proprie caratteristiche irripetibili. Fare sistema con la qualità italiana. Una grande fiera come PastaTrend, che si terrà a Bologna tra il 2 e il 5 aprile 2011, serve anche a questo. Ne parliamo con Roberto Ranieri, per anni responsabile della ricerca Barilla e attualmente presidente di Open Fields srl, società che si occupa di trasferimento tecnologico nel settore agroalimentare, cioè cura, per esempio, l'uso di nuove tecnologie nei processi industriali che riguardano grano duro, grano tenero e pomodori. Ranieri fa parte del comitato organizzatore di PastaTrend.
Com'è nato il suo coinvolgimento?
Da più di vent'anni mi occupo di filiera della pasta. Conosco molto bene l'industry di riferimento, cioè tutto l'apparato che sta dietro alla pasta e che comprende gli artigiani e i pastai industriali, ma anche i produttori di semi, di macchinari, di packaging e di ricerca da applicare al settore. Quando me ne hanno parlato, ho pensato subito che PastaTrend fosse un ottimo strumento di lavoro. Un'occasione per creare opportunità molto interessanti.
Può fare qualche esempio?
Penso che le caratteristiche fondamentali della fiera siano due, in funzione di un risultato strategico da centrare. La prima, più politica, è che costituisce una leva per rafforzare la competitività della filiera della pasta a livello internazionale. La seconda, che discende dalla prima, è che permette di aumentare le potenzialità di business delle aziende italiane sui mercati esteri. Entrambe queste caratteristiche tendono al raggiungimento di un obiettivo strategico, e cioè fare in modo che il business della pasta, nel mondo, continui ad essere detenuto dall'industry italiana.
Lei ha seguito anche la traferta di PastaTrend in Cina per l'Expò di Shangai del settembre 2010.
Sì, penso che sia stato un appuntamento importante perché la Cina rappresenta un mercato enorme, che non si può ignorare. Anche se bisogna affrontarlo con l'approccio giusto, perché implica anche dei punti critici. Presentarsi con una fiera come PastaTrend è un ottimo biglietto da visita.
D'altra parte, opportunità e difficoltà sono aspetti della stessa medaglia. Cosa ci vuole, secondo lei, per conquistare la Cina?
Intanto, partire dalla loro storia. In Cina esistono prodotti analoghi alla pasta e sono i noodles. Sono fili fatti a partire da materie prime diverse, grano tenero, soya o riso. Loro li consumano in modo diverso da come facciamo noi. Perciò bisogna tenerne conto.
E' una questione di rispetto della loro cultura?
Esatto. Perché i cinesi hanno una tradizione culinaria millenaria e ne sono orgogliosi. Loro cucinano i noodles in padelle, aggiungendo acqua, aromi, verdure, e mescolando tutto insieme. Proporgli la pasta al pomodoro o al ragù come la facciamo noi potrebbe rivelarsi un errore. Dobbiamo trovare il modo giusto di presentagli i nostri prodotti. Perché in Cina abbiamo constatato che l'interesse c'è ed è forte. Ma ci impone anche di adattarci a un mercato del genere. Altrimenti rischieremmo di dissipare energie in un'impresa titanica.
Esportare in un grande mercato comporterà anche problemi industriali.
Sì. E il più importante è trovare il modo di produrre la pasta in Cina. Se la esportassimo direttamente dall'Italia, non sarebbe mai competitiva. Dobbiamo riuscire a creare delle joint venture durevoli che permettano di realizzare il prodotto, con i nostri criteri (ad esempio utilizzando il grano duro, specie attualmente non coltivata in Cina), direttamente sul posto.
Tenendo conto, come diceva, della strategia commerciale.
Sapendo anche che, proprio come succede da noi, i giovani mostrano una scarsa propensione a cucinare. Però in Cina i giovani sono centinaia di milioni, quindi il loro approccio alla pasta va curato in modo particolare.