Nel corso della presentazione del padiglione Cibus a Expo 2015, Federalimentare ha anticipato cifre e tendenze contenuti nel suo Atlante Geografico del Food Made in Italy che fotografa la diffusione dell’export agroalimentare nel mondo, i mercati più importanti e quelli che nell’ultimo anno hanno regiistrato le performance più rilevanti. Ogni anno 1,2 miliardi di persone acquistano un prodotto dell'agroalimentare italiano: 750 milioni sono consumatori fidelizzati. Nel 2014 l’export agroalimentare italiano ha raggiunto la soglia dei 34,3 miliardi di euro, +2,7% rispetto al 2013.
2004-2014, dieci anni di export italiano
In termini di incremento, l’export alimentare viaggia a velocità doppia rispetto all'economia del Paese. Tra 2004 e 2014, il valore dell'export alimentare è aumentato dell'83,8%, il doppio rispetto al totale italiano (+46,1%).
Il peso delle esportazioni sul fatturato dell’industria alimentare italiana è salito dal 14% al 20,5%: nel 2004 esportavano all’estero 2 industrie su 10, oggi una su due delle 54.000 industrie italiane produce anche per i mercati esteri. In Germania il peso dell’export agroalimentare ha raggiunto un terzo del totale (33%), l’Italia è ferma al 20%, preceduta anche da Francia (26%) e Spagna (22%).
Nonostante questa incidenza minore dell'alimentare sul totale delle esportazioni, e inferiore rispetto a quella tedesca, l’Italia, anche grazie ad un più alto posizionamento di prezzo dei prodotti, produce più valore aggiunto: 24 miliardi contro gli 11 della Germania. Questo valore include le remunerazioni (salari e stipendi), gli utili, interessi bancari e finanziari, e il gettito fiscale (imposte dirette), e fa capire l'importanza strategica dell'alimentare per l’economia del Paese.
Mercati di sbocco: Germania e Francia in testa
La Germania si è confermata anche nel 2014 il primo paese destinatario dell’export agroalimentare italiano. Da sola assorbe il 16,1% del totale dell’export italiano. Seguono la Francia (11,6% e +2,9% rispetto al 2013) e gli Stati Uniti, primo mercato extraeuropeo dove le esportazioni sono cresciute nell’ultimo anno del +6,4%, raggiungendo una quota del 10,9% sul totale.
Balzo in avanti anche del Regno Unito, dove grazie al +7,6% dell’ultimo anno raggiunge il 9,5% sul totale. Aumenta del +3,1% anche l’export in Svizzera, che si ritaglia una quota del 3,9%. In totale questi cinque paesi assommano il 52,0% dell’export alimentare italiano, mentre i paesi dell’Ue insieme pesano il 62,2%.
Fondamentale il mercato russo nonostante la flessione (-6%) causata dalle sanzioni e dagli embarghi sui cibi europei: ne ha risentito l’export italiano, che nel 2013 aveva raggiunto i 527,8 milioni di euro, +24,2% sull’anno precedente.
Paesi emergenti
Rispetto al 2013 sono i paesi emergenti e con le economie più dinamiche, soprattutto quelli orientali e dell’Est Europa, a produrre tassi di crescita maggiori delle esportazioni di prodotti Made in Italy. A guidare la top ten dei paesi che nell’ultimo anno hanno dimostrato maggior dinamismo c’è Taiwan, che registra un +25,0% di prodotti alimentari italiani in entrata. Seguono Corea del Sud (+20,2%), Israele (+15,0%), Croazia (+14,6%), Singapore (+14,6%), Polonia (+13,3%) e Slovacchia (+13,0%). Ma il dato più significativo degli ultimi 12 mesi riguarda la Cina, il cui gradimento del made in Italy alimentare ritorna a sfiorare la doppia cifra (+9,9%).
Che cosa esportiamo
L’80% dell’export italiano è rappresentato da marchi industriali di prestigio e da prodotti a denominazione protetta (Dop, Igp). Tra le eccellenze del Made in Italy il comparto enologico, le cui esportazioni rispetto al 2013 sono aumentate dell'1,1%, si conferma al primo posto per volumi, con il 20,3% del totale e un valore di 5.523 miliardi di euro.
Al secondo posto il dolciario: +5,7% registrato nell’ultimo anno, con un valore di 3.345 milioni di euro, pari al 12,3%. Trend positivo anche per latte e formaggi (+4,4% rispetto al 2013), che insieme rappresentano il 9,2% di tutti i prodotti esportati, con una quota pari a 2.488 miliardi di euro.
Va molto bene anche un'altra star del cibo italiano, la pasta, un classico (+4,2% rispetto al 2013), che rappresenta l’8,3% dell’export alimentare, per un valore pari a 2.261 miliardi di euro. Di poco inferiore (2.088 miliardi di euro) la quota riservata agli ortaggi trasformati, passata di pomodoro in testa, che pesa il 7,7% del totale export, registrando un incremento del +3,7% nell’ultimo anno.
Tra gli altri prodotti, l’aumento più consistente si segnalano: mangimi (+23,0%), birra (+15,8%), pesce (+8,7%), riso (+8,1%), caffè (+7,6%), prosciutto, salumi e carni trasformate (+3,5%).
L'incubo della contraffazione
L’impatto della contraffazione e dell’Italian Sounding, cioè l’imitazione di un prodotto, di una denominazione o di un marchio attraverso il richiamo alla sua presunta italianità che non trova fondamento nel prodotto stesso, è pari a 60 miliardi di euro, circa la metà del fatturato totale del prodotto dall’industria alimentare italiana (132 miliardi di euro) e praticamente il doppio rispetto ai 34,3 miliardi di export. Il fenomeno dell’Italian Sounding è cresciuto del +180% negli ultimi dieci anni. Contraffazione e Italian Sounding sono diffusi ovunque nel mondo, a cominciare dall’Europa, ma il picco è nel Nord America, dove il fenomeno ha un impatto per 27 miliardi di euro. In Usa, dove si registrano percentuali sconcertanti (sono imitazioni il 97% dei sughi per pasta, il 94% delle conserve sott’olio e sotto aceto, il 76% dei pomodori in scatola, il 15% dei formaggi), solo 1 prodotto alimentare su 8 di quelli venduti come Made in italy è realmente italiano. Ma non sono da sottovalutare anche le conseguenze nella UE, dove contraffazione e imitazioni registrano un giro d’affari pari a 22 miliardi di euro.
Le cause
Sono molti i fattori che contribuiscono a frenare il Made in Italy nel mondo. Il più rilevante, dopo l’italian sounding, è la presenza di barriere non tariffarie pretestuose in tanti mercati di sbocco che ci ostacolano, rispetto ai concorrenti, nei nuovi mercati di più alto valore strategico. Ma hanno anche il loro peso non irrilevante la ridotta dimensione di molte imprese (troppo piccole per potersi permettere sforzi e investimenti per raggiungere mercati più lontani) e la mancanza di piattaforme distributive italiane all’estero. Solo di recente il nostro Paese ha intensificato le azioni di sostegno e difesa dell’agroalimentare, potenziando le reti diplomatiche e centralizzando la regia di organismi e risorse.